Siamo figli di una generazione che se ti laureavi in lettere facevi il professore, se facevi un corso per diventare infermiere poi ti inserivi nel primo concorso pubblico ed ecco fatto, volendo eri infermiere per tutta la vita. Siamo figli di gente che ha alle spalle percorsi lineari, e che quando ha avuto percorsi a zig zag li ha visti come un punto a sfavore: «nonostante io abbia fatto tutt’altro poi per fortuna sono riuscita a farmi assumere lì».
Quando poi è stato il nostro turno di entrare nel mondo del lavoro le cose non stavano più così da un po’. I nostri percorsi sono stati molto più tortuosi di come ce li hanno raccontati e di come ce li aspettavamo quando dopo le medie abbiamo deciso che avremmo fatto il linguistico perché ci piaceva l’idea di lavorare parlando, se capitava, un po’ di francese. Quando è stato il nostro turno di scegliere, il mondo in cui erano cresciuti e avevano vissuti i nostri genitori non esisteva più, e non c’era nessuno a guidarci in quello nuovo che ci aspettava.
O almeno, questo è come mi sono sentita io: nel corso degli anni, mentre cercavo di capire che cosa volessi fare – e anche dopo, quando già lavoravo – mi sentivo buttata in un mondo in cui mancava del tutto un’ispirazione, una guida, un modello.
Così la mia guida è diventata adattarmi, non avere aspettative. Perché non avere modelli a cui guardare, secondo me, è una cosa che ti sega le gambe. Ti toglie l’entusiasmo, ti fa smettere di sognare: se non ci sono stelle in vista, non rimane che guardare l’orizzonte.
Ti piace quello che fai?
Mi ricordo una volta a casa di mia nonna, ero piccola, guardavo mia zia rassettare la cucina. Le ho chiesto «ti piace lavare i piatti?» e lei si è infastidita: «che sciocchezza, cosa vuol dire “mi piace”? Lo faccio perché devo». Ecco: io la maggior parte delle cose della mia vita adulta le ho fatte proprio così, per senso del dovere, perché ormai ero lì e quella cosa andava fatta, perché ti adatti a quello che c’è e lo porti avanti.
Mi sono adattata al punto di smettere di provare entusiasmo per ciò che facevo: la mia preoccupazione, da un certo punto in poi, è stata solo che andasse bene. Non che andasse dove volevo io o che andasse come mi aspettavo. Che andasse bene: cioè non male, ma nemmeno meglio di così.
Poi un giorno ero sul treno di ritorno da Milano, avevo terminato una giornata di lavoro soddisfacente, mi ero comprata uno smalto azzurro, la città mi era sembrata bellissima per la prima volta in vita mia, e guardando fuori dal finestrino ho pensato: ma cosa mi trattiene dall’essere una che va a prendersi le cose che vuole? O almeno che ci prova?
Com’era successo che mi trovavo lì, a rinunciare a una marea di cose «perché tanto figurati, è impossibile»? Quanto tempo era che non facevo a me stessa quella domanda che da bambina rivolgevo a tutti, «ti piace quello che fai»?
Il mio motore
È stato allora che ho trovato il mio motore, che – come d’altra parte era prevedibile – non è all’esterno: non è nei modelli o nelle ispirazioni o nelle guide. A un certo punto ho smesso di guardare così fuori e così lontano, mi sono fermata e mi sono messa ad ascoltare ciò che c’era dentro: e dentro c’erano un sacco di cose che mi piacevano, mi entusiasmavano, mi appassionavano al punto di tenermi sveglia la notte e farmi venire i brividi di gioia e anche di paura.
Ho scoperto che il mio motore sono le ambizioni. Che avere delle ambizioni va bene. Che agire secondo le proprie ambizioni non vuol dire agire secondo colpi di testa, ma al contrario, significa avere un piano ed eseguirlo.
Mi sono detta: il mio tempo è adesso. Cosa sto aspettando, e perché continuo a cercare da altre parti quando è tutto già qui?
Se farsi andare bene quello che c’è è una dote, fare qualcosa per migliorare quello che c’è, per renderlo più bello, è una sfida: e coglierla, come si dice, è uno sbattone. Ma sai che soddisfazione quando ti accorgi che stai seguendo la strada che hai tracciato per te stesso.