Quando vai a un evento come il #freelancecamp portandoti nel bagaglio la stanchezza di una primavera di lavoro no-stop, allora ti godi l’esperienza in maniera diversa. Twitti meno, parli meno, porti a casa meno robe, lasci entrare solo ciò che ti colpisce veramente – perché per il resto non hai spazio. È un peccato ma anche una risorsa.
Le cose che mi porto a casa dal #freelancecamp sono tre:
- Le infradito e i prendisole funzionano. Mollati i fronzoli (i tacchi il trucco le cravatte l’ansia da PR gli inglesismi), i contenuti risaltano di più. È una cosa che ho notato – in maniera diversa – anche a State of the Net, poi vi dirò.
- I freelance sono imprenditori. Non c’è nessuna differenza tra gli uni e gli altri, diciamoci le cose come stanno. E inoltre: anche se sei uno sponsor puoi fare un ottimo speech, chiedete a Giuseppe Lanzi.
- Online non basta, e mi duole ammetterlo. Il mio credo è ‘non c’è alcuna differenza tra online e offline’, perché il passaparola è uno solo, le relazioni interpersonali pure – e le puoi canalizzare dove vuoi ma il succo non cambia. Alcune delle persone più importanti della mia vita le ho conosciute online, e sempre online ho fatto alcune delle cose più importanti della mia vita. In questo non c’è nulla di «virtuale». Forse è per questo che ogni tanto mi dimentico della necessità/bellezza dell’incontro offline. Ma appunto, devo ammetterlo: è stato bello e anche utile vedere il mio feed reader prendere vita a Marina Romea, e sentire cosa aveva da dire nel tempo delle Q&A (dico a voi Gianluca, Alessandra, Mafe). Quindi pare che alle mie slide ne manchi una: Torre d’Avorio con Adsl VS Confronto con Ciabatte.