La responsabilità di raccontarsi

È giusto raccontare solo i propri successi e tagliare fuori tutto il resto – problemi, giorni no, fatiche?

C’è una cosa a cui penso sempre più spesso: siamo diventati tutti (o quasi tutti) degli editori. Ci arrivano dei contenuti, e a seconda dei canali che presidiamo e della linea che ci siamo dati (in modo inconsapevole, la maggior parte delle volte) decidiamo se pubblicarli oppure no.

È una cosa che è iniziata un sacco di tempo fa: Biz Stone ne parla in Who let the Blogs out?, in cui racconta l’enorme opportunità che è arrivata nel momento in cui ognuno di noi ha potuto aprirsi uno spazio online e pubblicare ciò che voleva. Una volta per farti leggere avevi bisogno di qualcuno che ti desse un canale su cui imprimere le tue parole, dai blog in poi ognuno di noi ha iniziato a poter raggiungere i suoi lettori senza intermediazione.

Sembra bellissimo, e in effetti lo è, ma c’è un altro lato della medaglia: nel momento in cui siamo diventati degli editori ci siamo anche assunti una responsabilità enorme, e a questa responsabilità non siamo preparati.

Instagram e il piatto di verdure

Qualche settimana fa su Facebook raccontavo di come avessi preso la decisione di usare il mio canale Instagram per fotografare anche i giorni no, e non solo i successi, per raccontare ogni giornata senza discriminazioni.

Diverse persone mi hanno risposto che dei problemi si parla con una ristretta cerchia di persone, non si lavano i panni sporchi in pubblico, ed è una posizione su cui mi troverei d’accordo, se non fosse che mi sono stufata di un certo tipo di discorso pubblico portato avanti da persone come me (e anche da me, fino a ieri).

Più nello specifico mi sono stufata di leggere frasi come «oggi sto mangiando tre verdure messe insieme a caso, ma ieri mangiavo questa figata qui» (foto di piatto perfetto); o come «ecco una foto di me l’altro ieri, oggi sono in pigiama a casa struccata» (foto di outfit Dior, con ogni probabilità prestato in occasione di un evento e poi restituito alla fine dell’evento stesso).

Quando è successo che abbiamo deciso di non mostrare più le verdure messe insieme a caso? Perché sentiamo il bisogno di raccontarci come se vivessimo all’interno delle pagine di Elle Decor? È giusto raccontare solo i propri successi e tagliare fuori tutto il resto, o menzionarlo solo velocemente?

Perché, in definitiva, sembriamo tutti quanti dei testimonial di una pubblicità L’Orèal, solo con i capelli meno fluenti e soprattutto con molti meno soldi in tasca?

Le aspettative che uno crea

Ci ho pensato, e sono giunta alla conclusione che secondo me non è giusto tagliare fuori dal quadro i problemi. È vero che i panni si lavano in casa, ma forse a volte vale la pena tornare a farlo in pubblico, metterli in rete: soprattutto quando ovunque ti giri ci sono persone che cercano scorciatoie, che si lamentano, che pensano che esista una formula per il successo, che credono che magari quel successo passi proprio dal fotografarsi con vestiti prestati e pubblicare le foto su Instagram.

Come se non ci fosse altro, come se stesse tutto lì: nell’atto di vestirsi e fotografarsi, senza pianificazione, senza un’idea di business, senza tenacia o talento o voglia di farsi il culo.

Come se chi riuscisse a fare le cose fosse a seconda dei casi più ricco, più fortunato, o entrambi.

E quando dico queste cose la mente corre a Chiara Ferragni, ma il punto non sta affatto lì: il punto sta nei nostri feed Instagram. A partire dal mio, dove fino a un secondo fa sembrava che io vivessi in un mondo di glitter e quaderni immacolati, frangette piastrate e ciglia chilometriche. È una rappresentazione falsa e colpevole, perché fatta con intenzione. Crea delle aspettative irrealistiche sia in chi guarda sia in me stessa: come se fosse quello il punto a cui tendere, un mondo ordinato e perfetto fatto solo di cose nuove e belle.

Prendersi la responsabilità

È al termine di questo ragionamento che ho deciso di iniziare a (auto)scattarmi nella realtà. Perché se devo essere un editore, allora voglio prendermi tutte le mie responsabilità.

Anche se ultimamente quelle responsabilità si muovono tra il racconto delle mie occhiaie, della stanchezza e dell’allestimento di uno SpazioFigo che regala soddisfazioni ma anche un milione di ansie.

È più bello pensare che là fuori c’è qualcuno che riesce a lavorare e ottenere dei risultati senza fare fatica, o che vive in case dallo styling perfetto, o che mangia solo piatti fotogenici. Ma io ho smesso di farlo: è troppo facile credere che le cose succedano in un altrove in cui anche tu un giorno arriverai, e dimenticarti che invece il momento è proprio qui, proprio ora, in questa realtà che a guardarla bene non fa così schifo come sembra – soprattutto se tu per primo inizi a guardarla con occhi diversi.

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