Questo è un post che ho in canna da qualche anno, spero di riuscire a tirarlo fuori come vorrei: abbastanza chiaro nonostante il groviglio di pensieri da cui parte; abbastanza costruttivo nonostante il fastidio di averlo ricacciato in fondo per troppo tempo, fastidio che mi ha forse un po’ inacidita.
Lo spirito con cui lo scrivo, forse, si capisce meglio guardando questo video.
Ero un pesce fuor d’acqua
Ricordo bene il momento in cui ho deciso che avrei lavorato solo con le piccole aziende, e lo ricordo perché sapeva, allo stesso tempo, di vittoria e di sconfitta:
- vittoria, per essere finalmente giunta dove volevo. Avevo trovato il mio «via», il mio punto di partenza. Da lì in poi avrei smesso di cercare e mi sarei occupata di costruire.
- Sconfitta, perché mentre il resto del mondo – del mio mondo microscopico, fatto di altri consulenti che a grandi linee facevano il mio stesso lavoro – cercava clienti grossi, sempre più grossi, io mi dirigevo verso i piccoli, e dentro di me pensavo «ci deve essere per forza qualcosa di sbagliato in questo, e forse quel qualcosa sono io».
Era il 2012, e lavorare dichiaratamente con i «piccoli business» in quel momento era totalmente inconsueto: lo dico non per vantarmi di un primato, ma per contestualizzare quel sentimento di sconfitta che provavo. C’era, naturalmente, chi già lavorava con le piccole attività – e lo faceva da molto prima di me e molto meglio di me. Ma non c’era, o almeno non era venuto fuori dalle mie ricerche, qualcuno che dichiarava di aver scelto di lavorare solo con loro. Chi lavorava con le aziende più piccole (es.: l’ecommerce indipendente appena lanciato, il negozio di quartiere, l’azienda risicola di Vercelli, e così via) lo faceva tra un grosso cliente e l’altro – o almeno, questo era il dato che ne ricavavo io, dato che si guardava bene dal menzionare il lavoro con i piccoli.
La stessa etichetta «piccoli business» la prendevo in prestito dai miei modelli americani (small business), e non ero sicura che in italiano avrebbe reso l’idea, né che il mio target ci si sarebbe riconosciuto. Ma in italiano non esisteva un corrispettivo: le PMI sono imprese che occupano meno di 250 persone, i miei clienti avevano da zero a 50 dipendenti.
Ero un pesce fuor d’acqua, sapevo che quella era la mia acqua, ma non avevo punti di riferimento né confronti: tanto che, come ho già raccontato, la mia tagline mi sembrava stupida, e per un bel pezzo l’ho usata, sì, ma con un certo imbarazzo.
Questo è un altro mondo
Vorrei offrire un chiaro momento di svolta all’interno di questa storia, ma non c’è. Le stesse due emozioni mi accompagnano ancora oggi quando racconto cosa facciamo Ivan ed io. Quando tiro fuori i nostri numeri, soprattutto, e lo faccio davanti a completi sconosciuti che vengono dal mondo delle multinazionali: «fino ad oggi Guido ha avuto 658 abbonati», «dentro ci sono 177 video», eccetera.
Se vieni da un’azienda che ha 85 mila € all’anno da spendere solo in advertising su Facebook è incredibile pensare che noi si possa vivere con questi numeri qui. E non è una frase ipotetica: lo so perché le risposte che ricevo – pronunciate con le migliori delle intenzioni – vanno tutte in direzione del soccorso: «ma perché non provate a vendere i contenuti a terzi», «ma perché regalate tutti questi consigli con la newsletter», e così via.
Quello che è cambiato, rispetto all’inizio, è che mi sono accorta di una cosa: il mondo delle piccole aziende è un altro mondo. Il problema è che non l’ha ancora capito, di essere diverso – e hai voglia a farlo capire agli atri se non lo sai tu per primo.
Creiamo la nostra cultura?
La cosa che proprio non mi va giù è che questo mio mondo delle piccole aziende si ostina a confrontarsi con il mondo delle grosse aziende. Andiamo ai loro seminari, leggiamo le loro best practices, ci confrontiamo con loro costi medi di acquisizione e con i loro clic-rate, ascoltiamo i loro keynote, assumiamo i loro consulenti.
Alcune cose che ho sentito dire in questi anni da persone che hanno una piccola azienda:
- «ho trecento iscritti alla newsletter, non la mando ancora» (la persona in questione prima lavorava in una grossa azienda, la cui mailing list contava decine di migliaia di contatti)
- «i consulenti bravi lavorano con le grosse aziende, gli altri si accontentano» (come se le esigenze di una piccola azienda fossero simili a quelli di una grossa, solo in scala minore, e quindi si potesse davvero pensare di adottare le stesse soluzioni)
- «abbiamo preferito prendere qualcuno su Milano» (città che in questo caso non è un riferimento geografico ma il posto dove succede il vero business)
- «sono andato dai grafici di Mulino Bianco, eppure guarda cosa mi hanno proposto» (porge proposta di packaging simile a qualsiasi altra azienda food presente nella GDO, e lo fa con stupore)
Il problema di questo mondo dei piccoli con cui lavoro (e di cui io stessa faccio parte) è che non ha mai investito sul creare una cultura propria, o quando lo ha fatto se l’è tenuta nelle riunioni di categoria, si è guardato bene dal raccontarla all’esterno. E lo dimostra il fatto che la comunicazione delle piccole attività fa acqua da tutte le parti: si oscilla tra l’Editto di Costantino e il Buongiorno Kaffèèèèè, due estremi in mezzo a cui si moltiplicano i Montemagno from the block.
Le poche volte in cui i piccoli fanno delle loro dimensioni un argomento di comunicazione lo fanno lamentandosi: «a Natale compra dai negozi di quartiere», «aiuta le attività locali», «scegli il fatto a mano». Sembra quasi che se sei piccolo i clienti non te li devi guadagnare per merito, ti sono dovuti.
A me piacerebbe, invece, che noi piccole aziende si sviluppasse una sorta di orgoglio, il cui succo dovrebbe essere: siamo piccoli per scelta, non per sfiga.