Due anni fa mi trovavo, esattamente in questo periodo, a decidere cosa sarebbe stato di me. Che detta così sembra tragica: in pratica dovevo decidere se rimanere nel regime dei minimi oppure passare al regime ordinario. Ma a me sembrava che in palio ci fosse molto più di una scelta tra due regimi fiscali, mi sembrava che in palio ci fosse il mio stesso futuro – e un po’ era vero, ma non nei termini che pensavo io.
Prima di passare al bilancio di quella scelta, e prima di dire ciò che mi sta a cuore, un veloce chiarimento per chi non sa qual è la differenza tra i due regimi (anzi, qual era, fino a quel punto, la differenza: nel frattempo sono cambiate delle cose). Non sono una commercialista, quindi prendete queste descrizioni come riferimento di massima – e se avete altre domande non scrivete a me, ma fatele al vostro commercialista.
Il regime dei minimi mi consentiva di fatturare al massimo 30mila euro l’anno, pagando circa il 30% di tasse (5% di irpef, 27% di inps, se ricordo bene). Quindi, contati male: fatturi 30mila euro, paghi 10mila euro di tasse. (Il calcolo è incompleto e impreciso perché tra l’altro mancano le spese relative all’attività.)
Passando al regime ordinario potevo disfarmi della soglia dei 30mila, ma questo voleva dire pagare molte più tasse: per avere lo stesso netto annuo avrei dovuto fatturare intorno ai 50mila euro (di nuovo: cifra da prendere con le pinze; per un calcolo esatto chiedete a un commercialista), e da lì in poi il passaggio avrebbe iniziato a convenirmi. Tra i due regimi c’erano altre differenze, ma questa del rapporto tra tasse e fatturato era quella che mi interessava davvero: ce l’avrei fatta io, con le mie sole forze, ad aumentare così tanto il fatturato nel giro di un solo anno?
Fare ricerca
Per prendere questa decisione ho fatto ciò che faccio sempre: ho fatto ricerca. Ho sentito la commercialista, prima di tutto, che numeri alla mano ha tracciato un vago prospetto di quanto avrei dovuto fatturare perché il cambio di regime fiscale avesse senso, e mi ha anche detto quante tasse avrei dovuto pagare, più o meno, fatturando quella cifra. (Il calcolo non può mai essere preciso: prima di tutto perché le tasse si pagano in percentuale in base al fatturato, e poi perché il calcolo dipende da un numero imprecisato di fattori che fino all’ultimo minuto possono cambiare, tra cui le spese dell’attività).
Poi ho chiesto in giro. Conosco molti freelance, la maggior parte nel regime ordinario: come fanno a sopravvivere pagando il 50–60% di tasse? Hanno degli investitori? Hanno la casa comprata dal papà? Hanno forzieri d’oro nascosti in cantina? Intendiamoci: evviva gli investitori e i papà che ti comprano le case, avercene. Ma io, non avendo né l’una né l’altra cosa, avevo invece un cruccio: volevo capire se era realmente possibile stare nel regime ordinario e non solo sopravvivere, ma vivere, e anche bene, con il mio lavoro.
Quello che ho capito è che era impossibile avere questa informazione dai miei pari: non solo – giustamente – le persone non ti fanno entrare volentieri nella loro contabilità, ma in questa ricerca ho ritrovato quella tendenza a lamentarsi che avevo già incontrato quando avevo deciso di aprire partita iva.
Non mi aspettavo che qualcuno mi dicesse che sarebbe stato semplice, ma tornavo dalla mia ricerca insoddisfatta, con la coda tra le gambe. L’informazione ricorrente era: lascia perdere, chi te lo fa fare, è una mazzata. E poi: fai questo passaggio solo se hai la sicurezza di fatturare il doppio. Per non parlare dei più furbi: tutti quelli che nel regime ordinario non ci erano mai stati, ma sentivano comunque il dovere di dare il loro contributo, di dirmi come potevo fare per rimanere nei minimi e contemporaneamente fatturare di più – con consigli spesso al limite della legalità.
E intanto io avevo sempre più voglia di starmene tranquilla nel mio cantuccio dei minimi, che sarà piccolo, ma è anche relativamente sicuro.
La voglia di fare
Dal lato opposto rispetto al cantuccio delle sicurezze c’era (e c’è) la voglia di fare e di crescere.
A metà ottobre di due anni fa stava iniziando per il secondo anno il balletto dei vorrei-ma-non-posso: lavori che avrei voluto prendere, corsi che avrei voluto lanciare, ma che non sapevo come fatturare. Se li avessi presi avrei rischiato di uscire dai benedetti 30mila euro.
E se da una parte mi dicevo «che figata, ho raggiunto il mio obiettivo, adesso inizia il periodo in cui posso riposarmi e passeggiare nei boschi», dall’altra tutto in me sapeva che quelle erano solo buone intenzioni, perché io non sono fatta così.
Quando dichiaro che «riesco ad alzarmi dal letto al mattino solo se so che quel giorno fatturerò» spesso sto scherzando, ma diciamo che un fondo di verità in questa frase c’è. Potrei vivere serena e riposarmi, ma io sono serena e riesco a riposarmi solo quando so che ho fatto la mia parte, e la mia parte non è mai stata accontentarmi. Io mi trovo bene nella fatica, perché è la cosa a cui sono più abituata. È sbagliato? forse. Dovrei darmi una calmata? Probabilmente. Ma sono fatta così, quindi mi sono detta: deal with it.
E questo deal with it è esattamente il punto in cui ho capito cosa dovevo fare, il punto che interessa a chi è nella mia stessa situazione di due anni fa: se senti che quella soglia dei 30mila ti tarpa le ali, togli la benedetta soglia e vola alto. Non c’è nessun motivo al mondo per cui uno dovrebbe rimanere nel regime dei minimi se sa che può fare di più.
Sentire e sapere
Sentire che la soglia dei 30mila ti tarpa le ali e sapere che puoi fare di più sono due concetti che rischiano di essere letti nel verso sbagliato. Mi ci soffermo per chiarire cosa intendo.
Quando dico sentire e sapere intendo prendere una decisione informata e basata sui fatti.
I fatti sono, secondo me: come sei fatto tu, da un lato. Come reagisci quando sei sotto stress? Come reagisci all’idea di aumentare il carico di lavoro? Hai mai accarezzato l’idea di cercare un posto da dipendente? (Niente di male a fare un percorso da freelance e poi tornare in azienda, anzi, figata, ma se la tua strategia è questa allora è meglio essere conservativi e rimanere nei minimi.)
E poi, gli altri fatti: com’è fatta la tua attività, cosa vendi, a chi lo vendi, quante spese hai, quanto fatturi, quante persone lavorano con te, quanto puoi realisticamente aumentare il fatturato senza duplicare il carico di lavoro. E ho detto realisticamente.
Quando scrivo sentire e sapere non intendo in nessun modo «prendere una decisione di pancia». La pancia qui può suggerire delle cose, ma poi quelle cose andrebbero messe su un tavolo e incrociate con altre. E tutte insieme, queste cose, dovrebbero formare un piano.
Decidere per il futuro (e averne paura)
L’elemento che non ho ancora nominato, in questo quadro, è la paura.
La paura è arrivata subito dopo il sentire e il sapere. Credevo che il bivio fosse tra «strada che tutto sommato funziona» e «strada che porta al suicidio», e nel scegliere la seconda sono iniziati mesi di paura vera: prima sono stata immobile, ho smesso di fare le cose per come sapevo farle. Poi ho iniziato a imbarcare un cliente sbagliato dietro l’altro, perché a quel punto ogni 100 € era sacrosanto, e io avevo perso il lume della ragione. Quello che mi è successo subito dopo la scelta è che ho annullato tutto ciò che sapevo e sentivo, ho lasciato che la paura prendesse il volante, e insieme abbiamo iniziato a dirigerci, come promesso, verso il suicidio.
Due anni fa pensavo questo: se ho così tanta paura forse non è la strada giusta, forse non sono pronta per cambiare regime fiscale. Mi sbagliavo: ho scoperto che la paura serve, ma, come dicevo, solo se la tieni insieme a tutte le altre cose che nel frattempo hai messo sul tavolo, solo se fa parte del piano, se comunica con le cose che sai e le cose che senti.
Ora mi accorgo che cambiare regime fiscale ha significato, per me, iniziare a fare le cose sul serio. Ho tagliato i rami secchi, mi sono fatta domande serie sulla mia offerta, ho iniziato a comunicare con costanza e con intenzione, mi sono messa alla ricerca di risposte: la ricerca è lunga e lontana dal risolversi, ma non sarebbe mai iniziata se fossi rimasta nel mio cantuccio di relative sicurezze.
In effetti due anni fa stavo decidendo per il mio futuro, ma non nei termini che immaginavo. La vera scelta era tra farlo iniziare oppure rimandarlo, e sono felice che sia iniziato.