Sperare e fare

Una cosa che ho imparato sui miei clienti, e che di riflesso ho imparato su di me.

sperare e fare

La fine dell’anno si avvicina e io che amo i bilanci inizio a farne qualcuno.

Quest’anno, ad esempio, ho imparato una cosa: ho imparato che il minimo comune denominatore tra tutti i miei clienti è avere due anime. Un’anima è quella dello sperare, l’altra quella del fare.

Ho imparato che le due anime, per costruire qualcosa, devono funzionare insieme.

Molto spesso l’anima del fare va per i fatti suoi: e allora manca un piano, manca una direzione, manca sapere perché stai facendo qualcosa, manca sapere come devi farlo.

Come quella mia cliente che continua ad aggiungere servizi al suo catalogo perché le vengono chiesti. E sono servizi bellissimi, per carità, ma ora il suo piccolo business assomiglia più a un bazar – e se come consulente sento che la mia consulenza è stata inutile, come potenziale cliente è ancora peggio, perché mi sento confusa: non so più perché e quando dovrei chiamarla. Dentro a un bazar non ci vai, ci capiti.

L’anima dello sperare, però, è la mia vera nemica. Lavorarci insieme è bellissimo, per carità: lei è quella che eccelle nella progettazione. Che quando si fanno i piani fa le domande più intelligenti, ti mette davanti le sfide più complesse. È quella che ti chiede di approfondire, che non si può fermare a un’analisi superficiale. Perché l’anima dello sperare, appunto, spera di arrivare là dove vorrebbe essere. E lo spera con tutte le sue forze, ma se la lasci da sola si ferma proprio lì: sta seduta sulla spiaggia della progettazione, fino ad arenarsi.

La cosa peggiore è che allo sperare non c’è mai fine: se di fare senza sapere perché e come dopo un po’ ti stanchi – perché il fare richiede azione, quindi energie, e quelle dopo un po’ finiscono – al contrario puoi continuare all’infinito a sperare. Sperare non richiede grosse energie: devi solo sederti in un punto di questa spiaggia lunghissima, guardare l’infinito, pensare ai castelli che potresti costruire, non muoverti mai.

Quest’anno ho imparato che per quanto io ami la fase di progettazione, è nell’azione che la progettazione assume un senso: altrimenti stiamo qui a dirci cose bellissime che rimangono sulla carta, e se volevo rimanere sulla carta mi mettevo a fare la ricercatrice, passavo le giornate in archivio a sfogliare volumi polverosi – e per un po’ l’ho fatto, ma mi girava la testa a star lì seduta tra la polvere.

Così ho preso un foglio di carta, ho scritto «wish for it», ci ho tirato una riga sopra, e al suo fianco ho scritto «work for it».

Io sono qui per unire lo sperare al fare. Ecco cosa ho imparato su di me: che mi piace trovare un modo per fare funzionare quelle due anime, per farle lavorare insieme. Al prossimo anno chiedo, se non è troppo, di insegnarmi a essere fedele a questa mia, chiamiamola così, vocazione.

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